La macchina fotografica apparve immediatamente uno strumento privilegiato per esplorare l’universo umano. Dall’antropologia alla medicina, dalla psichiatria alla giustizia, le fotografie permisero di fermare, guardare, analizzare e interpretare i dati.
L’Ottocento fu il secolo delle spedizioni in terre lontane, alla scoperta di popolazioni sconosciute, da osservare e studiare. La fotografia si presentava come un efficace strumento di misurazione dei tipi umani e al contempo come un occhio attento a cogliere le peculiarità culturali dei popoli.
Paolo Mantegazza (1831-1910) fece della macchina fotografica un costante uso sia per i suoi studi sulle espressioni del dolore umano sia durante i suoi viaggi di ricerca antropologica. Prima e dopo di lui, si partì per osservare e fotografare l’altro, con approcci e finalità differenti.
Le scienze mediche riposero grandi aspettative nelle nuove tecniche di riproduzione ottica. Da sempre abituati ad avvalersi del disegno per fissare ciò che gli occhi osservavano, la fotografia apparve agli studiosi di medicina in grado di rivelare dettagli invisibili all’occhio umano e di fornire immagini fedeli e oggettive.
In breve tempo anche gli ospedali psichiatrici si attrezzarono di gabinetti fotografici con varie funzioni: dalla fotografia inserita nella cartella clinica del paziente, allo studio comparativo delle patologie, alla didattica, alla documentazione della storia e delle attività degli istituti.
In Italia, la polizia giudiziaria tardò ad accogliere il contributo che la fotografia avrebbe potuto apportare alle indagini, nonostante le intuizioni di Cesare Lombroso (1835-1909). Soltanto con il nuovo secolo la macchina fotografica diventò parte integrante dell’attrezzatura della polizia scientifica.